Il legame che l’uomo siciliano ha sempre avuto con la sua terra è indiscutibile, cosi’ come è radicata la dedizione per la coltivazione dei cereali, in particolare il grano, un lavoro che si tramanda da padre in figlio da generazioni e che ha radici antiche così come lo erano i mezzi e le tecniche utlizzate.
La coltivazione del grano ha radici profonde nella plurimillenaria cultura agraria mediterranea. E la Sicilia da sempre, per i popoli migranti, in gran parte da Oriente, è emersa dal mare come “terra promessa” fertile e generosa di spighe.
La coltivazione cerealicola in Sicilia a carattere estensivo, per almeno due millenni, ha dominato con regolari geometrie e colori cangianti stagionali il paesaggio agrario, ha attratto irresistibilmente al suo generoso ciclo vegetativo le civiltà che si sono succedute nel dominio/governo dell’Isola.
Sono state stagioni di prosperità e carestia, oscillando, dunque, fra ricchezza ostentata e povertà patita, cui soccorreva periodicamente e strategicamente, con eventi prodigiosi risolutivi, la mano “umano-divina”.

Un legame, dunque, antico e necessario, quello fra uomo, terra, grano e cielo, da leggere entro un quadro culturale e mentale, condiviso unanimemente e trasversalmente da tutte le classi sociali. Una dialettica intensa, quella fra i tanti attori in campo, marcata da prevaricazioni e privazioni, replicata, da padre in figlio, e rimasta sostanzialmente immutata, fino alla metà del Novecento, come tratto distintivo della civiltà contadina e delle èlite di potere nobiliare e mercantile siciliane.
E così ai cattivi raccolti, alle periodiche avversità climatiche, alla precarietà dell’esistenza, si opponevano strategie di sopravvivenza che si appellavano al soprannaturale, con la replica di gesti rituali emblematici, perpetuatisi nella cultura di tradizione orale fin sul finire del XX secolo.
Granaio del Mediterraneo, la Sicilia, ha mantenuto nei secoli, fra alterne fortune, il primato incontrastato della produzione di frumento, soprattutto quello di varietà duro, fino all’Unità d’Italia. Poi, il lento e inesorabile declino dovuto alla contrazione delle superfici coltivate, alla crisi del mercato del grano duro, alla persistenza del regime latifondista, di origine feudale, che imponeva patti agrari iniqui e pratiche di lavoro arcaiche, essenzialmente riconducibili al complesso “uomo-bestiame-aratro”.
Quest’ultimo “insieme”, quasi a segnalare un destino di vita naturale condiviso, ineludibile, e, dunque, un legame necessario ed equilibrato, anche se precario, fra uomo, animali e ambiente: amato, temuto, e rispettato ad un tempo.

Un rapporto vitale, quello derivante dalla forza-lavoro-animale, i buoi erano compagni fedeli, pazienti e indispensabili per il lavoro.
La società agraria siciliana, sul più ampio orizzonte mediterraneo, emerge, dunque, sul lungo periodo storico, come luogo geografico-culturale eminentemente conservativo, custode di un’antica memoria rituale-contadina, declinata spesso ad una condizione servile, diventata intollerabile nell’Ottocento, immutabile nei suoi tratti dominanti e chiusa in un tenace isolamento, in grado di resistere ai radicali cambiamenti epocali del Novecento.
Il ricordo di questo forte legame che ha sempre contraddistinto l’uomo e la terra, deve essere visto ai fini di in un disegno virtuoso di “nuova vita armoniosa con l’ambiente naturale”, che non può e non deve estirpare le sue profonde radici contadine, anzi proprio da queste, può trarre linfa vitale e saggi insegnamenti per una armonica crescita, auspicando alle nuove generazioni un futuro siciliano migliore.